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Semiotropie. Eredità di Barthes
A cura di Giuseppe Crivella




I. Un remous minéral dans l’imposture du Sens achevé.
Barthes, Blanchot e la solitaria sfinge dell’écriture
di Giuseppe Crivella

16 febbraio 2016




Abstract: The subject of this study is the concept of writing declined according to the double line of interpretation that crosses and connects the works of Roland Barthes and the thought of Maurice Blanchot. The essay aims to decipher a theory of writing that recognizes three precise structures: l’écriture come ipertopia disgregante del linguaggio, l’écriture come circolare afocalità del soggetto and l’écriture come epilettico tremito dell’immagine.

Keywords: Barthes, Blanchot, Theory of Writing, Language and Imaginary, French Literature.


Nell’arco di tempo che va dalle opere degli anni ’50 fino agli ultimi testi della fine degli anni ’70 le occorrenze del nome di Blanchot e i riferimenti espliciti alla sua opera all’interno della produzione barthesiana si moltiplicano in modo rilevante. Il nome dell’autore de L’entretien infini poco a poco diventa sempre più frequente, ricorre in interviste, citazioni, testi estemporanei, saggi. Perfino nell’ultimo testo edito in vita da Barthes e dedicato alla fotografia Blanchot occupa inaspettatamente un posto di rilievo, dal momento che il suo nome e il brano di un suo testo 3 tratto da Le livre à venir — appaiono verso la metà del quarantaquattresimo paragrafo allo scopo di fornire una decifrazione retorse dell’essenza dell’immagine e dello sguardo. [1]

Già nell’opera d’esordio di Barthes inoltre Blanchot appariva come uno degli autori chiave per capire le tesi lì esposte. E tuttavia, intervistato nel 1971 da Jean Thibaudeau [2] a proposito degli autori che avevano costituito per lui un punto di riferimento durante le fasi salienti della sua formazione intellettuale, cioè nel periodo immediatamente anteriore a Le degré zéro de l’écriture, Barthes omette il nome di Blanchot, affermando recisamente che al tempo non lo conosceva e non aveva letto ancora nulla di suo.

Si tratta di una affermazione piuttosto strana, la quale si spiega soltanto considerando che molto probabilmente Barthes ha aggiunto il nome di Blanchot e i riferimenti espliciti a suoi testi solo in un momento avanzato di stesura dell’opera, avendo quasi sicuramente incontrato il suo nome mentre stava già raccogliendo il materiale per il saggio del 1953. Letta in questo senso la risposta di Barthes a Thibaudeau pertanto da una parte spiegherebbe l’apparente incongruenza, dall’altra rimarcherebbe la rilevanza immediata e prolungata che il pensiero di Blanchot ha indubbiamente avuto sul suo.

Scrittura, scomparsa del soggetto, implosione del libro nella forma dispersiva del textum, immagine come elusione della ressemblance ed evocazione di un fuori, impersonalità della parola letteraria, letteratura come vacanza del senso sono solo alcuni dei temi che i due autori hanno in comune. È difficile tra l’altro stabilire chi abbia influenzato chi, poiché se è vero che Blanchot è più grande di Barthes di otto anni e che inizia a pubblicare i primi testi di saggistica tra la fine degli anni trenta e la metà degli anni quaranta, va anche detto che entrambi gli autori compiono quella svolta decisiva che li porterà a focalizzarsi sulla écriture più o meno nello stesso periodo, cioè alla metà degli anni ’50, Barthes proprio coll’opera evocata poco sopra, Blanchot con un dittico destinato a influenzare buona parte della cultura francese successiva: L’espace littéraire (1955) e Le livre à venir (1959). Sono in particolare gli scritti su Kafka ad impressionare Barthes e saranno quindi proprio questi ad essere richiamati ne Le degré zéro de l’écriture:
Blanchot ha notato a proposito di Kafka che l’elaborazione del racconto impersonale (osserveremo in relazione a questo termine che la terza persona è sempre data come un grado negativo della persona) era un atto di fedeltà all’essenza del linguaggio, poiché questo tende naturalmente verso la propria distruzione. Comprendiamo allora come /il/ sia una vittoria su /io/, nella misura in cui esso realizza uno stato simultaneamente più letterario e più assente. Tuttavia la vittoria è senza sosta compromessa: la convenzione letteraria dello /il/ è necessaria all’indebolimento della persona ma rischia ad ogni istante di ingombrarla con uno spessore inatteso. La Letteratura è come il fosforo: brilla al massimo nel momento in cui essa cerca di morire. [3]
Nel 1953 Barthes, tramite Blanchot, ha già messo in campo un sistema di nozioni che non cesserà di elaborare fino alla morte. In queste poche righe i temi principali della sua riflessione si trovano già tutti convocati, quasi chiamati in rassegna per essere poi sviscerati e approfonditi, permutati e messi in tensione l’uno con l’altro e l’uno dopo l’altro, nelle varie raccolte di saggi che egli pubblicherà fino a La chambre claire.

Blanchot e Barthes a questo punto diventano quasi indistinguibili, agitano le acque, fino ad allora forse un po’ stagnanti, della critica letteraria francese innescando quella rivoluzionaria opera di rinnovamento della riflessione sulla letteratura che sfocerà nella nascita della Nouvelle critique e che troverà nello strutturalismo, nella semiologia, nel decostruzionismo la giusta controparte teorica a quel lavoro indefesso di rilettura che essi compiranno sui testi.

Vi sono però anche delle linee di frattura tra i due, come ad esempio il catalogo di autori prediletti: Blanchot ha tra i suoi Rilke, Hölderlin, Kafka, Char, Eraclito (nella formidabile interpretazione di Ramnoux), Henry Miller, Broch, Woolf, Celan; Barthes da subito individua due poli: Brecht e Robbe-Grillet, poi si sposta su Racine, Michelet e La Bruyère, torna nel Novecento con Cayrol e Sollers. Entrambi hanno alle spalle Bataille — il quale è molto più presente in Blanchot — e de Saussure — della cui lezione è impregnato soprattutto Barthes. Si tratta quindi di una vicinanza variabile, come due corpi celesti che finiscano con l’attrarsi quasi per contrasto, nelle forme di una collisione sempre sfiorata, sempre trasformata in insensibile sfioramento, in incontro frontale che eluda però ogni sguardo diretto, almeno fino alla fine degli anni ’60, periodo durante il quale l’autore degli Essais critiques inizia a palesare in modo sempre più chiaro i suoi debiti nei confronti di Blanchot, chiamato in causa sia nel testo introduttivo al corso sul neutro, che Barthes stava preparando poco prima di morire, [5] sia nella sofferta ricostruzione del fallimento della progettazione della rivista Arguments, in cui Blanchot viene designato, con espressione ironicamente ambigua, «un leader de la négativité avec un grand N». [6] Anche a fronte delle divergenze, rimane però assodato che la écriture è ciò che mette in stretta relazione i due autori in un percorso di pensiero per lo più speculare e parallelo, ma che a volte conosce anche degli improvvisi accavallamenti probabilmente fecondi per entrambi.

Ma allora che cos’è l’écriture? Sia in Barthes che in Blanchot poco a poco essa assurge a frammentario assoluto della parola letteraria, ineludibile rovina del senso, labirintica voce di una persona loquens smarrita senza possibilità di salvezza nella trappola scorsoia di un eloquio che non le appartiene più. Dalla enunciazione risalente agli anni ’50 riguardante l’esistenza di una presunta écriture blanche [7] fino al testo su Sollers, Barthes insegue questa nozione, cerca di definirla assimilandola ad una pratica quasi ascetica di volontario e deliberato smarrimento del senso, di rinuncia a ciò che si ritiene soltanto di possedere, di imponderabile contatto col vuoto, di penetrazione in quella etrangété che si sperimenta nel lasciarsi osservare da una parola come da un essere vivente, il cui sguardo però si sia ritratto nel geometrico naufragio di ogni rassomiglianza familiare. L’écriture è portatrice di quella immagine immediatamente sensibile, affascinante, che regna grazie all’attrazione selvaggia della sua presenza, la quale è presenza di qualcosa che non dovrebbe essere lì — che in verità non è presente — e davanti alla quale è impossibile tenersi fermi, restare immobili: presenza di un’immagine che ci trasforma nell’enigma stesso di un’immagine. [8] L’écriture pone così la domanda più profonda, la quale non può essere compresa, ma solo ripetuta, riflessa su un piano ove essa non riesce ad essere risolta, ma solo dissolta, rinviata dal vuoto da cui è sorta, chiamata a dissiparsi nel linguaggio stesso che l’ha generata e che ora non è più in grado di intenderla. Per questo motivo l’écriture non è linguaggio, ma è piuttosto l’esperienza del linguaggio — da intendersi al tempo stesso come genitivo attivo e come genitivo passivo [9] — vissuta come una regione senza orizzonte ove l’io sia ridotto — o amplificato — a una puntualità non personale e oscillante tra nessuno e qualcuno, sembiante di qualcosa che soltanto la relazione esorbitante trasforma silenziosamente e momentaneamente nell’istanza di un io-soggetto con cui quella puntualità sembra voler corrispondere unicamente per simulare l’identico, affinché a partire da esso si annunci, proprio tramite la scrittura, il segno e la ferita di un Altro che sia l’assolutamente non-identico. [10]

Per Barthes e per Blanchot inoltre la scrittura appartiene alla esperienza di una estinzione: quella del libro per il primo, ecceduto dall’inesorabile illimitatezza del farsi textum della scrittura quale esorbitante magma di testi che accerchiano il soggetto [11] e lo espellono dal loro gioco differenziale, tramutandolo in una funzione episodica della loro meccanica linguistica e riducendolo ad una emergenza estemporanea e dilaniata in seno ad essa, ad un punto di condensazione trasparente delle virtualità della langue, subito riassorbito nella sua fredda incoscienza omeostatica. Estinzione dell’opera per il secondo, intesa come désœvrement, [12] luogo di quella esperienza-limite in cui l’écriture ha le movenze sibilline e felpate di un avvento notturno nel quale il linguaggio tace perpetuandosi nella rarefatta imminenza di un abbagliante oblio privo di rapporti col tempo e col ritorno di qualcosa che appartiene al trascorso senza mai essere stato presente, disastro [13] che de-scrive i limiti della propria impossibile origine e del suo inavvertibile allontanamento in un altrove del tempo da cui la parola arriva per ripetersi, replicarsi, ripercuotersi in un istante che preceda ogni fenomeno, ogni manifestazione, ogni apparire.

Disastro immobile e immemoriale è allora la écriture, che espone chi la sperimenta alla necessità di riconoscersi nella sfera di una vorace anonimia, attraversata dalla bianca estenuazione del soggetto adibito a pura perdita, a inattingibile passività, la quale lo affetta da un fuori ove sia possibile reperire soltanto un simulacro di unità: scrittura del disastro come interruzione dell’incessante in cui si perpetua l’eccesso dell’infigurabile in seno a ciò che Blanchot chiama «l’ancien du maintenant» [14].

In tal modo l’écriture risplende del lucore tenebroso di un linguaggio diafano e desolato, di un linguaggio che in tanto parla in quanto esprime in primis l’espulsione del soggetto dalle proprie dinamiche intestine, l’evacuazione del mondo dal proprio schematismo di significazione, l’espunzione di una regione definita di sensi docilmente trasmissibili mediante esso. L’écriture di Blanchot e Barthes espone il pensiero alla raggelata immobilità di un linguaggio radicato nelle lacere vastità generate a partire da un gioco lugubre di reiterate risonanze tra segni, i quali gravitano nella porosa identità di una notte [15] il cui protrarsi infinito assomiglia al flebile intervallo di un tremito che attraversi la cadaverica pienezza di ogni assoluto.

Ecco perché per Blanchot frequentare l’écriture significa «tracer un cercle à l’intérieur duquel viendrait s’inscrire le dehors de tout cercle». [16] La scrittura allora diventa la ferita invisibile di un pensiero che non riesce più a pensarsi, di un pensiero che si tramuta all’improvviso in qualcosa che tutt’altro rispetto ad esso, simile ad una notte inondata di immagini le quali ne costituiscano però la densa oscurità. L’écriture vale qui come un’assenza di visione che assurge a punto culminante di ogni sguardo e ove l’occhio, divenuto ormai inutile per la vista, assume dimensioni straordinarie, sviluppandosi in modo smisurato, dilatandosi oltre i confini del reale in modo da lasciar filtrare in seno ad esso la notte, al fine di raccoglierne l’ultima luce, percepita come un riflesso che rechi impressa l’immagine totale di un mondo ove sia rappresentata l’assenza di ogni figura immaginabile: l’écriture quindi intesa come «un vide qui contemple». [17]

Va detto che Blanchot non ha mai negato le marcate sfumature mistiche [18] che la sua concezione della scrittura sembra assumere, sempre prossima ad una sorta di fosca illuminazione in grado di metterci in contatto con ciò che egli chiama trans-descendence quale luogo della neutralizzazione ripetitiva dell’io a cui bisogna aspirare per pervenire a quella soggettività senza soggetto che ai suoi occhi costituisce l’unico possibile titolare della scrittura.

Si tratta in Blanchot di un lascito permanente che deriva senza dubbio dalla vicinanza con Bataille, il quale non a caso viene più volte richiamato in questi termini in numerose parti dell’opera blanchotiana. [19] In effetti in Barthes questo aspetto arriva in maniera decisamente attenuata, ma ciò non vuol dire che egli non sappia farne tesoro e metterlo a profitto in seno alla sua teoria della letteratura intesa come pratica della déplétion du sens. [20]

È proprio in questi termini infatti che negli Essais Critiques Blanchot viene esplicitamente chiamato in causa. Ecco quindi come Barthes presenta l’autore de L’entretien infini:
vediamo che, anche attraverso la critica della significazione [signification], vi è una evanescenza progressiva del significato che sembra essere la sfida di tutto questo dibattito critico; tuttavia i significanti sono sempre presenti, attestati qui dalla loro realtà di significato [signifié], là dal découpage dell’opera secondo una pertinenza che non è più estetica ma strutturale. Qui è possibile opporre […] tutta questa critica al discorso di Blanchot, inteso d’altronde come linguaggio, piuttosto che come metalinguaggio, cosa che conferisce a Blanchot un posto indeciso tra la critica e la letteratura. Tuttavia, rifiutando ogni solidificazione semantica all’opera, Blanchot si limita a tracciare in negativo [dessiner en creux] il senso, ed è questa una impresa la cui difficoltà concerne sempre la critica della significazione [...]. Fare senso è facile, tutta la cultura di massa lo elabora indefessamente; sospendere il senso è già un’operazione infinitamente più complicata, è, se vogliamo, un ‘arte; ma annientare il senso è un progetto disperato, proporzionato alla sua impossibilità [...]. L’opera di Blanchot (critica o romanzesca) rappresenta quindi a suo modo […] una sorta di epopea del senso, adamitico se si vuole, poiché è quella del primo uomo anteriormente al senso. [21]
Sono pagine estremamente illuminanti, poiché se da una parte rivelano l’ammirazione di Barthes per la scrittura blanchotiana, dall’altra ne prendono immediatamente le distanze, sottolineando come la sua posizione sia piuttosto collocabile in una zona mediana tra l’impresa estrema di Blanchot — esperienza di una evacuazione radicale del senso — e l’ipertrofia dei significati precostituiti della produzione di massa, posizione questa che porterà Barthes a parlare della letteratura come di un oggetto parassitario [22] in seno alla cultura di massa, nonché come di un veicolo mediante cui mettere in campo un sistema di significazione déceptif, che sia cioè in grado di porre e frustrare il senso nello stesso tempo. [23]

Ma la presenza felpata e consistente di Blanchot continuerà ad agitarsi sotto la scrittura di Barthes: il suo nome ricorrerà sempre più di frequente e quasi sempre affiancato a quello di Mallarmé o di Kafka. L’opera dell’autore dell’Entretien infini costituirà per Barthes una sorta di affascinante soglia critica da costeggiare e corteggiare senza mai valicare o mettere in discussione. La sua écriture blanche rappresenta quindi la fase avanzata di una sperimentazione del senso che rischia sempre diessere eccessiva, estrema, aberrante e pericolosa.

Se Blanchot, con ostinazione certosina, trasforma la scrittura in un iperbolico orizzonte filosofico che, lavorando dall’interno stesso della lingua e del pensiero, corrode ogni ordine prestabilito puntando ad un delirante assoluto di linguaggio che appaia come lo spazio-zero dalla profondità del quale interrogare l’eco silenziosa di una parola impotente, a partire dalla quale si perpetui e si cancelli simultaneamente l’ellittico, frammentario, sconosciuto profilarsi del mondo nella regolata follia di un tempo di manifestazione capace di eludere ogni presenza, Barthes preferirà mantenersi sempre in posizione arretrata, in una sorta di sorvegliatissima retroguardia attenta a non condurre troppo a fondo, quasi verso un punto di non ritorno, la risalita alle fonti del senso.

Per questo motivo, quando Blanchot evocherà Barthes, in uno dei saggi della terza sezione de L’entretien infini consacrata proprio all’assenza di libro, la sue considerazioni saranno un po’ tiepide, si accosteranno a Barthes quasi obliquamente, senza citarlo mai, [24] intrise di una certa perplessità che Blanchot non espliciterà mai, ma che è avvertibile nel fatto che egli, optando per un serrato vis-à-vis con gli autori a lui contemporanei sul modo di intendere la letteratura, non riserverà mai un posto privilegiato a Barthes, il quale invece, come abbiamo visto, guarderà con ammirazione Blanchot come il termine ultimo di una ricerca forse esposta ad uno scacco destinato ad apparire paradossalmente come l’unico risultato possibile, interiormente agitato da quel «mouvement de l’interminable […], jusqu’à ce mot de trop où défaille le langage». [25]

Eppure non si può non restare sorpresi di fronte ad un fatto abbastanza evidente: se si cerca di interpretare la produzione narrativa di Blanchot ricorrendo alla fluida mobilità dei terminali critici messi a punto da Barthes le congruenze [26] tra le due concezioni risultano maggiori rispetto alle difformità. Non possiamo qui dilungarci troppo su questo aspetto che meriterebbe una disamina estremamente capillare, ma vogliamo proporre tuttavia una sorta di esperimento-pilota al fine di mostrare quanto l’écriture espressa dai récits di Blanchot diventi pienamente trasparente se vagliata con le teorie sull’écriture di Barthes. Selezionando quindi tre blocchi narrativi da tre romanzi del primo cercheremo di mostrare quanto le riflessioni del secondo si attaglino ad esse. La scelta degli estratti verrà compiuta tenendo presente tre connotati propri della écriture dell’autore dell’Entretien infini, connotati che naturalmente tenteremo di reperire anche in Barthes.


1. L’écriture come ipertopia disgregante del linguaggio [27]:
parole immobili che io ora sento a causa di questa immobilità che mi avverte della presenza di qualcosa e le rende pesanti, leggere? Troppo leggere per colui che, invece di lasciarle venire da sole, non può che fissarle, senza lo spazio vivente in cui esse prenderebbero vita [...]. Egli mi ignora, io lo ignoro, per questo egli mi parla, avanza le sue parole in mezzo a molte altre che dicono soltanto ciò che noi diciamo, sotto questa doppia ignoranza che ci preserva, con un leggerissimo brancolamento che rende la sua presenza così sicura e così dubbiosa. Forse egli non fa altro che ripetere me stesso. Forse sono io che, in anticipo, lo confermo. Forse questo dialogo è il ritorno periodico di parole che si cercano, si chiamano senza fine e non si incontrano che una volta. Forse non siamo qui né l’uno né l’altro e, da questa assenza, essa è sola a portare il segreto, che ci sottrae. [28]
Furtivo e obliquo, il linguaggio obbedisce qui a quella legge di abolizione che Barthes isola nella scrittura di Sollers. [29] In esso l’écriture spinge il locutore a scivolare sempre indefessamente sulla frontiera sfaccettata delle parole, assumendo una struttura aperta che non è quella della grammatica generativa, ma piuttosto quella di una vertigine degenerativa inscritta nel linguaggio come una matrice occulta che lo travaglia e lo attraversa, facendone una immensa geologia da cui la narrazione emergerebbe come la scena di un gesto verbale composto di frammenti, lacerti, rovine. Sovraccarico di interstizi, eccessivo e al tempo stesso vacante, sempre in preda al molteplice disordine delle parole che designano lo sfacelo minuto delle proprie significazioni, il linguaggio qui è colto sempre allo stato nascente, ora prossimo a rapprendersi in una sonnolenta spontaneità da cui nessuna retorica potrebbe redimerlo, ora prossimo a liquefarsi in una specularità tautologica dei propri processi semantici che eludono ogni struttura di rinvio, per rinchiudersi nella neutralizzazione preziosa di ogni referente.

Il linguaggio si profila come una caosmografia di parole, un dramma che mette in scena l’evento stesso della parola chiamata a mostrarsi nella sua ostinata superficie di segno, la quale denega ogni spessore semiologico che non verta unicamente sulla propria natura linguistica. Esso secerne così una nuova lingua nel corpo stesso della lingua, assurge a schermo mobile ove però nessuna rappresentazione viene a iscriversi o a tracciarsi, formicolante di un peso referenziale che assomiglia alla leggera tumescenza di un segno sorto al limite del senso.

Sia in Blanchot che in Barthes, il linguaggio si dispiega e si amplifica a partire da una costellazione franante di soglie differenziali raccordanti segni in traslazione perpetua: simile a un immenso corpo vivente, nella sua vasta unità di orizzonte privo di radicamento, esso si raccoglie tutto sul confine infinito che lo separa dal mondo, diventandone riflesso inverso, figura parassitaria incapsulata in esso sotto le sembianze d’un meta-linguaggio che non spiega o prescrive le matrici di senso necessarie per esprimere il reale, ma le svuota dall’interno, le porta al tracollo, le fa crollare su se stesse, ne svela e ne sventa l’inganno e l’incanto analogico-rappresentativo, producendo in esso l’iniziazione ad uno strappo che, simile ad un metronomo bloccato in grado di arrestare il tempo, faccia della écriture la scenografia intransitiva, ove linguaggio e mondo coincidono senza rassomigliarsi, si attraversano senza sfiorarsi, tramite quella siderale forma di prossimità che la écriture intrattiene col proprio oggetto ridotto ad una evanescenza informe la quale infetta la parola nel momento stesso in cui questa palesa la propria innata intimità con la più alta idea di assenza.


2. L’écriture come circolare afocalità del soggetto [30]:
vi è qui come una increspatura unica dello spazio, in qualche modo io la vedo, e il fatto che essa sia lì, come una irregolarità discordante, dovrebbe costituire un avvertimento, ma già senza preoccuparmene io mi rovescio leggermente, gioiosamente, confidando nello spazio, nella sua indifferenza e inattenzione. Così si compie quest’ultimo movimento, con una facilità che esprime la mia allegria, ma appena si afferma, tutta la potenza del vuoto si chiude attorno a me, mi stringe, mi trattiene e mi respinge nella profondità di una caduta senza fondo, in modo che la lacerazione nella quale cado ha esattamente le dimensioni del mio corpo, è il mio corpo in cui io non ho la possibilità di cadere e contro il quale urto in questo istante come contro una presenza fredda, straniera, che mi respinge dove sono. È questo l’inizio, mi dicevo, le cose sono iniziate così. Sì, tale è il sogno e ciò che esso vorrebbe farmi scoprire, lo sospetto: se ora mi è vietato stendermi è perché sono già steso in quel punto ove però io non sono più, ma un altro vi è. [31]
Un uomo perduto in una galleria di specchi ove però la sua immagine sia l’unica mancante, ecco che cos’è lo scrivente nella écriture blanchotiana. Il testo nasce, si forma, nel momento stesso in cui quello si dissolve, scompare nell’incessante espandersi di una parola plurale e polverizzata al tempo stesso. Il soggetto è afocale perché, se si manifesta in seno al linguaggio, è solo per rivestirvi una funzione privativa, di evacuazione dalla lingua della propria presenza accidentale. Il soggetto però parla, ma solo da un punto di irradiazione sotterraneo che non riesce mai ad occupare a pieno, attante infranto di una matrice operativa — la locuzione — dalla quale esso si trova ad essere estromesso nell’istante medesimo in cui sembra incarnarne le funzioni. Portavoce della narrazione non è quindi la persona loquens, ma l’apersonne, [32] intesa come quella inassegnabile parte di identità che assiste dal margine alla propria deforme generazione dagli atti di enunciazione di cui si credeva autore, titolare e signore: il soggetto quindi come la costitutiva utopia di ogni linguaggio, «en sorte que toute écriture qui ne ment pas désigne, non les attributs intérieurs du sujet, mais son absence». [33]


3. L’écriture come epilettico tremito dell’immagine [34]
io sono visto. Poroso, identico alla notte che non si vede, io sono visto […]. Egli è questo sguardo che continua a vedermi nella mia assenza. È l’occhio che la mia scomparsa, mano a mano che diventa più completa, esige sempre di più per perpetuarmi come oggetto di visione. Nella notte noi siamo inseparabili. La nostra intimità è questa notte stessa [...]. Senza colore, non iscritto in alcuna forma pensabile, non essendo altro che il prodotto di un possente cervello, io sono la sola immagine necessaria. Sulla retina dell’occhio assoluto io sono la piccola immagine rovesciata di ogni cosa. Io gli do, tramite le mie fattezze, la visione personale non solo del mare, ma dell’eco della collina che risuona del grido del primo uomo. Là tutto è distinto, tutto è confuso. Un’unità perfetta, per il prisma che io sono, restituisce la dissipazione infinita che permette di vedere tutto senza vedere nulla. [35]
Per Blanchot l’inizio del tempo è già una ripetizione, è il reiterarsi variato di un principio che assomiglia a qualcosa che si sia già prodotto infinite volte, che lo ha preceduto incrinandone in tal moda la natura di evento aurorale. L’immagine appartiene a questa sfera di replica simulacrale, di sdoppiamento incongruo e insondabile che fende il tempo in una sfaldata deriva di istanti sovrapposti e non più successivi. Il tempo quindi non scorre, va in stallo, si arena nella ottusa ciclicità di un inizio che rimanda sempre ad una anteriorità acefala, priva di principio, dilatatasi in una durata che ha qualcosa di calcificato, di decrepito, di mortuario.

L’immagine non appartiene però alla sfera dello sguardo. Essa appare dinanzi ad esso per occluderne le possibilità di visione, per richiamarlo indietro, per sollecitarlo a una risalita furiosa e impossibile verso una origine percettiva in cui le cose hanno perso la loro ottusa crosta di sembianti per diventare esse stesse particole impazzite di visioni senza soggetto, immagini accecate dotate di occhi che d’improvviso si schiudono dal dormiente fondo materiale di un’ombra che abbia la prossimità inaccessibile di uno specchio posto dinanzi alla inerme cecità della notte. L’immagine blanchotiana è sinonimo di una lacuna incassata nel cuore dell’invisibile, insaturabile lacuna che può essere occupata solo da un soggetto che cessi di essere semplicemente vedente per farsi esso stesso voyance, immagine di questa voyance, emanazione nuda di un’evidenza senza volto e identità che irradia la propria densità di infigurabile a partire da uno sguardo che non serve più per vedere, ma unicamente per apparire, per farsi vedere, esattamente come quello che Roland Barthes ravvisa e decifra in uno scatto di Kertész in cui esso, come trattenuto da qualcosa di interiore all’immagine stessa, si limita a mostrarsi come puro sguardo. [36]


[1] OC V, p. 873.
[2] OC III, p. 1028.
[3] OC I, pp. 193-194. Traduzione e corsivi nostri.
[4] In quello stesso anno Blanchot pubblicava uno dei romanzi più enigmatici della sua produzione: Celui qui ne m’accompagnait pas.
[5] OC, V, p. 531.
[6] Vie et mort des Revues, intervista del 1979, pubblicata solo nel 1982, cfr. Ivi, pp. 778-780. Per una intellezione piena di questa idea della négativité blanchotiana cfr. OC II, p. 616.
[7] OC I, p. 194.
[8] M. Blanchot, Thomas l’obscur, Gallimard, Paris 1950, p. 18.
[9] EI, p. 103.
[10] M. Blanchot, Le dernier homme, Gallimard, Paris 1957.
[11] Cfr. OC III, pp. 908-916 e OC IV, pp. 718-720. Ma anche Blanchot, EI, p. 628.
[12] M. Blanchot, L’entretient infini, Minuit, Paris 1969, pp. Da ora in nota sempre con EI.
[13] M. Blanchot, L’écriture du désastre, Gallimard, Paris 1980.
[14] Ivi, p. 65.
[15] Sulla centralità del tema della notte cfr. H. Choplin, Chercher en silence avec Maurice Blanchot, Harmattan, Paris 2013, pp. 49-80.
[16] EI, p. 112.
[17] M. Blanchot, Thomas l’obscur, cit., p. 128.
[18] M. Blanchot, L’écriture..., p. 211, ove si parla esplicitamente dell’Uno dei mistici.
[19] Ivi, soprattutto p. 139.
[20] OC II, p. 455. Il saggio è dedicato a Robbe-Grillet.
[21] Ivi, p. 518-519. Traduzione nostra.
[22] Ivi, p. 512.
[23] Ivi, p. 514.
[24] EI, p. 586.
[25] Ivi, p. 505.
[26] Sebbene Barthes non evochi mai Blanchot, nei passi dedicati alla scrittura del frammento è impossibile non risentire gli inconfondibili echi de L’entretien infini, cfr. OC IV, pp. 670-672.
[27] Cfr. anche F. Collin, Maurice Blanchot et la question de l’écriture, Gallimard, Paris 1986.
[28] M. Blanchot, Le dernier homme, pp. 48-49. Traduzione nostra.
[29] OC, p. 594.
[30] Cfr. anche H. Choplin, Chercher en silence...
[31] M. Blanchot, Celui qui ne..., pp. 116-117. Traduzione nostra.
[32] OC V, p. 589.
[33] OC II, p. 796. Corsivi di Barthes.
[34] Cfr. anche J.-L. Lannoy, Langage, perception, mouvement. Blanchot et Merleau-Ponty, ed. Milon, Paris 2008.
[35] M. Blanchot, Thomas l’obscur, cit., pp. 125-126. Traduzione nostra.
[36] OC V, p. 880.




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